Buongiorno a tutti,
non è possibile sottrarsi all’analisi del tempo che stiamo vivendo. Non è possibile continuare a vivere e fare finta che a qualche chilometro di distanza stia accadendo qualcosa che non riguarda noi; almeno non riguarda noi direttamente. In fondo, si tratta di una guerra tra un popolo che non ha ancora trovato il modus operandi per tagliare il cordone ombelicale con le proprie origini.
No. Non ci possiamo voltare dall’altra parte come invece sembriamo fare.
Quella guerra pare toccarci “ancora” solo marginalmente. Ma non dobbiamo avere fretta. Entro la fine dell’anno c’è da attendersi (purtroppo) una bella mazzata dalla quale ci rialzeremo con qualche ammaccatura …
Eppure, noi ce la potremo cavare solo con qualche “ammaccatura”; gli ucraini … si ritroveranno più o meno come gli italiani si sono ritrovati nel dopoguerra: una nazione distrutta ed un popolo diviso.
Si, perché la narrazione che ci viene fornita ovvero quella di un popolo unito nel combattere la Russia è una narrazione solamente parziale; le cose non stanno esattamente così o comunque, non solamente così. Tutta la popolazione del Donbass non è così unità all’Ucraina ed al popolo ucraino. Fino a qualche anno fa, quegli stessi cittadini oggi rivendicati come “ucraini”, in realtà, sono stati vessati dall’ucraina in quanto russi o filo-russi. Basterebbe ricordare l’incendio della casa del sindacato dove morirono 42 persone. Era solamente il 2014! E allora occorrerà una gran forza d’animo, capacità, oltre che risorse, per riunire una popolazione così fortemente divisa. Sempre che ci si riesca.
E i russi? A guerra finita, come staranno? Forse, ancora peggio: con la necessità, da un lato, di ricambiare una classe dirigente azzerata da decisioni prese a livello mondiale, e dall’altro, senza più alcun sostegno dal mondo occidentale (e, forse, non solo da quello occidentale).
Non oso nemmeno immaginare le responsabilità che cadranno sulla testa di quelle persone che dovranno ridisegnare un nuovo ordine mondiale. Nuovo ordine mondiale che, peraltro, nessuno ha chiesto.
E che cosa preverrà nel tracciare questo nuovo ordine? Princìpi? Bisogni? Interessi? Desiderio di vendetta? Che cosa?
Spero che a nessuno passi per la testa che ho il desiderio di schierarmi. A chi dovesse sorgere questo dubbio, rimando al mio articolo del 20 marzo scorso.
Devo però concludere che ne io, e immagino nemmeno voi, saremo in grado di intervenire o influenzare le scelte di chi ha in mano le sorti di questo Mondo. Una cosa però (io) posso fare: contribuire alla consolazione di chi è combattuto tra il non sapere o il non poter fare qualcosa in questo grave momento.
E cosa c’è di meglio che consolarsi con la poesia; la poesia che ti fa fare un viaggio; meglio ancora se il viaggio è quello di Astolfo sulla luna, mirabilmente raccontato da Ludovico Ariosto. Ma cosa ci va a fare Astolfo sulla luna: una luna piena di fiumi, di laghi, di montagne. Va a cercare il senno perduto da Orlando. Astolfo lo trova il senno di Orlando. E noi? Riusciremo a ritrovarlo il senno? Astolfo è stato aiutato da San Giovanni Evangelista … noi, sull’aiuto di chi potremo contare? E allora godiamoci la meraviglia dell’Orlando Furioso. Si è vero, la parte che Vi propongo è lunga; ma provate ad avvicinarvi senza timore e magari con un po’ di curiosità per questo “demente” di Astolfo; ne resterete affascinati e anche Voi, come è giusto che sia, cadrete nella trappola che Ludovico ci ha teso: vi commuoverete!
Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che ’l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.
Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ‘l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti qua giù,
là su salendo ritrovar potrai.
Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.
Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autorità ch’ai suoi danno i signori.
I mantici ch’intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide boccie rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
“L’elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte.”
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.
Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: “Senno d’Orlando”.
E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un’altra volta gli levò il cervello.
La più capace e piena ampolla, ov’era
il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sì leggiera,
come stimò, con l’altre essendo a monte.
Prima che ‘l paladin da quella sfera
Piena di luce alle più basse smonte,
menato fu da l’apostolo santo
in un palagio ov’era un fiume a canto;
Un saluto.
Zavoratti.
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