Buongiorno a tutti,

un carissimo amico fiorentino, storico dell’arte, nella stesura di un testo riguardante un particolarissimo aspetto dell’arte del XV secolo, si è imbattuto in fatti che hanno una rilevanza con quanto accade ai giorni nostri.  Sono lieto di poter pubblicare il frutto delle riflessioni di R. Lunardi e, contestualmente, sono certo che non mancherete di rintracciare qualche analogia tra passato e presente. La lunghezza del testo impone una pubblicazione a puntate.  Diamo inizio:

Interessi opposti all’ordine cui avevano teso gli antichi cittadini eredi di Roma e del suo impero unico e indivisibile, voluto dalla Provvidenza divina per accogliere Cristo e diffonderne la parola, luogo prescelto e quindi predestinato dell’incarnazione del Padre nel Figlio per opera dello Spirito Santo.

L’ordine ricercato, secondo Dante, era quello della natura ordinata da Dio e pertanto perfetta, ordine da conservare tramite il diritto che è giusto quando è finalizzato all’ottenimento del bene comune garantibile, sul piano civile, esclusivamente dalla suprema autorità rivestita da un monarca universale e cioè l’imperatore, il solo in grado di esercitare il potere con prudenza, giustizia, fortezza e temperanza assicurando l’armonia tra gli uomini e la felicità terrena.

E l’impero era per lui quello Sacro Romano e Germanico erede sì in Carlo Magno incoronato da papa Leone III nell’800, di quello antico di Augusto, ma solo della porzione mediana della sua parte occidentale caduta nel 476 con la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo da parte di Odoacre, re degli Eruli.

Insorse così, gravissimo, il problema dei rapporti di questa nuova grande entità politica, e quindi dell’Occidente, con l’Impero bizantino o dei Greci, la disputa determinata dalla compresenza di due imperatori che si sarebbe protratta fino ai primi del diciannovesimo secolo riguardando, successivamente ai Bizantini, gli Ottomani, in seguito alla loro conquista di Costantinopoli, e quindi i Russi che, dopo la prima Roma antica e gloriosa, e poi Costantinopoli, per seconda, cominciarono a considerare come terza Roma la loro capitale Mosca, da quando Ivan III, il suo Gran Principe,  Signore di tutte le Russie, e cioè Grande, Piccola e Bianca, nel 1472 sposò in seconde nozze Zoe/Sofia Paleologina, l’ultima principessa imperiale di Bisanzio, il che gli permise di vantare diritti dinastici di successione sul trono dell’Impero fino a denominarsi anche zar, da Caesar, e cioè imperatore.

Zoe era infatti figlia di Tommaso despota di Morea e pertanto anche nipote del suo fratello maggiore, l’imperatore Giovanni VIII Paleologo morto nel 1448, nonché dell’altro suo fratello che gli era succeduto, Costantino XI, l’ultimo dei Paleologi sul trono, morto in difesa di Costantinopoli che, posta sotto assedio da Maometto II, era caduta il 29 maggio del 1453 segnando la fine dell’Impero Romano d’Oriente.

Anche la Morea nel 1460 era stata occupata dagli Ottomani e Tommaso, nel 1461 aveva trovato riparo a Roma dove, riconosciuto erede dell’Impero bizantino da papa Pio II, era stato accolto con grandi onori per l’intento del pontefice di ottenere finalmente l’unione delle due chiese latina e greca sancita a Firenze nel 1439, ma non compiuta.

Le gerarchie ecclesiastiche orientali non avevano infatti accettato le risoluzioni della delegazione greca al Concilio, nonché, al contempo, di legare la sovranità del papato, succeduta a quella imperiale d’Occidente, alla sovranità costantinopolitana d’Oriente.

Nel 1461, il 15 di agosto, ugualmente assediata e conquistata dai Turchi Ottomani, ultima città a capitolare dell’Impero Romano d’Oriente, era stata Trebisonda, capitale dell’omonimo impero fondato dalla dinastia imperiale dei Comneni nel 1204 quale stato erede dell’impero bizantino, in seguito alla conquista crociata di Costantinopoli.

A seguito di quell’evento lontano, e allo stesso modo pretendenti alla corona imperiale, erano stati fondati anche l’Impero di Nicea, da parte della dinastia dei Lascaris, nell’area nord occidentale dell’Anatolia corrispondente grosso modo all’antica Bitinia romana, poi caduto nel 1261, e il Despotato d’Epiro, ad opera della famiglia imperiale degli Angeli, imparentati con i Comneni, sulla sponda orientale del mare Ionio, tra le odierne Albania meridionale e Grecia settentrionale, caduto nel 1359.

L’Impero di Trebisonda si era insediato invece sulla sponda meridionale del mar Nero ed era arrivato a comprendere anche alcuni territori nella parte sud della Crimea da dove, occupando la punta occidentale della penisola di Taman, aveva oltrepassato anche lo stretto di Kerch che quasi chiude il mar d’Azov.

Tre anni dopo la disfatta di tale ultimo baluardo imperiale nel 1461, il 14 agosto del 1464, era deceduto papa Pio II che aveva accolto a Roma Tommaso Paleologo il quale, convertitosi al cattolicesimo, aveva invitato i figli, rifugiatisi a Corfù con la madre che vi era morta nel 1462, a raggiungerlo presso il papa che ben volentieri aveva dato il suo consenso al fine di ospitare gli eredi dell’Impero.

A Pio II, frattanto, eletto il 30 agosto e incoronato il 16 settembre dello stesso 1464, era succeduto il veneziano Pietro Barbo il quale, pronipote di Gregorio XII nonché nipote di Eugenio IV, aveva assunto il nome di Paolo II.

Il 12 maggio del 1465 era quindi morto anche Tommaso Paleologo e il Papa, fedele all’impegno del suo predecessore, aveva accolto a Roma i suoi orfani: Zoe, forse quindicenne ed il cui nome, squisitamente greco, sarebbe poi stato cambiato in Sofia, e i suoi fratelli Andrea e Manuele, di dodici e di dieci anni, tutti e tre affidati al cardinal Bessarione il quale ne era diventato il tutore curando la loro educazione.

Riguardo al Bessarione, come ci testimonia Vespasiano da Bisticci al quindicesimo paragrafo della Vita di Eugenio IV Papa, la prima di tutte quelle che scrisse, va ricordato che, conclusosi il Concilio, nei mesi successivi aveva fatto «papa Eugenio in Firenze diciotto cardinali e publicògli tutti in un medesimo dì: fra’ quali furono duo greci, Niceno e Ruteno e papa Pagolo. E volendo papa Eugenio compiacere a’ Fiorentini di dua o tre cardinale, si fece fare una nota, e conoscendogli tutti, e’ fu se non uno ch’egli approvasse: e quello fu il cardinale degli Alberti, vescovo di Camerino, uomo di grandissima bontà e di buona casa» (43a- 1480-1498. Vespasiano da Bisticci, Vite di Uomini Illustri del secolo XV, a cura di Paolo D’Ancona ed Erhard Aeschlimann, Milano Hoepli, 1951)

Il «papa Paolo» era il proprio nipote Pietro Barbo di cui sopra, successore di Pio II, la cui pubblicazione a cardinale, però, non aveva avuto luogo a Firenze in occasione del concistoro del 18 dicembre del 1439, come afferma Vespasiano, quando di cardinali ne erano stati pubblicati diciassette, bensì con il concistoro, sempre fiorentino, del primo di luglio del 1440.

Il cardinale Niceno era invece proprio il Bessarione il quale, nato a Trebisonda nel 1403 e di nome Basilio, aveva assunto il nuovo nome quando, giovanissimo, si era fatto monaco, per derivare poi l’appellativo di Niceno giunto fino a noi, nel 1437, quando era stato nominato arcivescovo di Nicea, una delle sedi metropolitane del patriarcato di Costantinopoli.

Nel 1438, in quanto tale, era poi stato inviato in Italia, a Ferrara, quale membro della delegazione dei prelati greci al Concilio cui si è fatto cenno indetto per addivenire finalmente alla riunificazione dei cristiani d’Oriente e d’Occidente dopo il grande scisma del 1054.

A Ferrara aveva però cominciato presto a diffondersi la peste e la Signoria fiorentina, interpretando il desiderio del Papa di lasciare la città anche per lo scarseggiare dei fondi concessi in prestito da Venezia, per bocca di Lorenzo di Giovanni di Bicci de’ Medici gli aveva fatto  una così vantaggiosa offerta circa l’assunzione dell’onere delle spese necessarie per concluderlo che, con decisione assunta il 10 di gennaio del 1439 il Concilio era stato trasferito a Firenze previo lo stanziamento di oltre quattromila fiorini deliberato dalla Signoria.

Il Concilio aveva tenuto la prima sessione fiorentina il 26 di febbraio nel convento di Santa Maria Novella dove risiedeva papa Eugenio IV il quale era arrivato in città il 22 di gennaio, seguito dal patriarca Giuseppe II di Costantinopoli, il 12 di febbraio, e poi dall’imperatore Giovanni VIII, tre giorni dopo, il 15, tutti accolti con grandi onori dalla Signoria con a capo il gonfaloniere Cosimo di Giovanni di Bicci de’ Medici fautore principale di quel trasferimento.

Il Patriarca, convintissimo dell’unione, con grave disorientamento dei Greci, era purtroppo morto il 10 di giugno ed era stato sepolto in Santa Maria Novella, ma i lavori erano stati ripresi con successo e il Bessarione, originariamente contrario alla pacificazione, parteggiando per i bizantini, ne era diventato poi sostenitore tanto convinto  da essere incaricato di coordinare per i greci la redazione nelle due lingue latina e greca del testo del decreto di unione, stesura che era stata affidata a dodici delegati, sei per ciascuna Chiesa, con Ambrogio Traversari coordinatore dei latini.

Il documento aveva quindi ottenuto l’approvazione delle parti il 4 di luglio e il giorno successivo era stato sottoscritto, prima dai greci nel palazzo Peruzzi dove risiedeva l’Imperatore, e immediatamente dopo dai latini, nelle stanze papali di Santa Maria Novella.

Subito il 6 di luglio, alla presenza del Papa e dell’Imperatore, nonché di tutti i padri conciliari, si era poi tenuta l’ultima sessione pubblica e solenne della grande assise dando lettura del decreto d’unione in Santa Maria del Fiore e, a leggere il testo in greco, era stato lo stesso Bessarione, mentre quello redatto in latino era stato letto dal cardinale Giuliano Cesarini.

L’Imperatore, nel documento che era costato laboriose ricerche e lunghe discussioni, era stato definito da  «Eugenius episcopus, servus servorum Dei (…) carissimo filio nostro Johanne Paleologo Romeorum imperatore illustri, et locatenentibus venerabilium fratrum nostrorum Patriarcharum, et ceteris orientalem ecclesiam representantibus»  293 a – P. Vincenzo Chiaroni, O.P., Lo Scisma Greco e il Concilio di Firenze (Pro Oriente Cristiano), Libreria Editrice Fiorentina, Fiesole, Tipografia E. Rigacci, 1938.XVI, p. 76, testimone illustrissimo, cioè, e privilegiato quale «carissimo figlio nostro» e «imperatore dei Romei», rispetto anche ai prelati vicari dei Patriarchi orientali, ricordati in secondo luogo e definiti «nostri fratelli».

Successivamente, il 22 di novembre dello stesso 1439, era stato promulgato anche il decreto di unione degli Armeni cui era seguita l’unione dei Copti, sancita in Santa Maria Novella il 4 di febbraio del 1441.

E ci racconta quindi Vespasiano da Bisticci, nel quattordicesimo paragrafo della Vita di papa Eugenio, che di «tutta questa solennità, le scritture, avendole ordinate tutte il cardinale di santo Agnolo, Cesarini, sendosi fatti in Firenze, volle il cardinale, per la memoria di sì degno atto, ch’elle vi rimanessino; e per questo volle, che tutti gli originale di questa unione fussino in palagio de’ Signori ad perpetuam rei memoriam. E fece fare una cassetta fornita d’ariento, e missevi drento tutte quelle scritture e de’ Greci, e degli Armeni, e Jacopiti, ed Indiani, e donolle alla Signoria che le tenessi ad perpetuam rei memoriam di sì degno atto» (43a- 1480-1498. Vespasiano da Bisticci, Vite di Uomini Illustri del secolo XV, a cura di Paolo D’Ancona ed Erhard Aeschlimann, Milano Hoepli, 1951)

La cassetta, riferibile a Donatello, reca gli smalti della Madonna col Bambino in trono e degli stemmi del Papa e del cardinale Cesarini e rimase in Palazzo Vecchio, nella Cappella dei Priori intitolata a San Bernardo fino al 1783 mentre ora è conservata, insieme a tutti i documenti che vi erano stati riposti, nella Biblioteca Medicea Laurenziana.

Tornando ora indietro ai cardinali fatti da papa Eugenio a Firenze il 18 dicembre del 1439, il secondo espressamente citato come greco da Vespasiano da Bisticci è il Ruteno, il prelato ortodosso Isidoro che, originario di Monemvasia, nel Peloponneso meridionale, e fattosi monaco nel monastero di San Demetrio a Costantinopoli,  nel 1434 ne era diventato superiore e come tale aveva fatto parte della delegazione bizantina al Concilio di Basilea indetto da papa Martino V, anche per la riunificazione della Chiesa cattolica con quella ortodossa, poco prima che morisse il 20 febbraio del 1431, e che avrebbe avuto il suo seguito a Ferrara, prima, e poi a Firenze.

Rientrato in Grecia, per il grande prestigio di cui godeva nel 1437era stato nominato metropolita di Kiev e di tutte le Russie dall’imperatore Giovanni VIII e da Giuseppe II, Patriarca ecumenico di Costantinopoli dal quale dipendeva la metropolia kioviana che gerarchicamente era a capo del cristianesimo russo.

Con quella nomina le due supreme autorità bizantine avevano sperato che Isidoro fosse inviato al Concilio quale rappresentante di Basilio II, Vassili in russo, il Gran Principe di Mosca, padre di Ivan III, così che anche la Chiesa ortodossa russa partecipasse al processo di unione di tutti i cristiani nell’intendimento anche, certamente, di ottenere il sostegno delle potenze occidentali in difesa dei loro territori bizantini.

Tale incarico non era stato ottenuto, anche perché Vassili aveva appoggiato la designazione a quel seggio tanto prestigioso del monaco e poi vescovo Giona di Galič, ma intanto, ai primi del 1438, il successore di Martino V, Eugenio IV, aveva disposto di trasferire il Concilio in  Italia  e precisamente a Ferrara dove  il metropolita Isidoro era stato presente il 9 aprile dello stesso 1438 all’inaugurazione della grande assise poi trasferita a Firenze dove aveva operato intensamente per addivenire all’unione auspicata dei cristiani che si era realizzata anche con il riconoscimento, da parte del Patriarca di Costantinopoli, della supremazia del Papa romano.

Alla prossima puntata.

Un saluto.
Zavoratti