Buongiorno a tutti,

ecco la seconda parte di una storia affascinante accaduta tanti anni fa (siamo nel XV secolo), nella quale si rintracciano alcune coincidenze con i nostri tempi e che la lucidità e sarcasmo dell’amico storico dell’arte R. Lunardi, ha voluto scrivere per non dimenticare e per il piacere dei lettori e dei curiosi. Eccola:

Isidoro, quando era stato fatto cardinale, era stato detto Ruteno dal nome della vasta regione sulla quale avrebbe dovuto esercitare la propria autorità di legato pontificio, la Rutenia, che corrispondeva grosso modo a parti più o meno vaste delle odierne Slovacchia, Polonia, Bielorussia, Russia e Ucraina.

A Kiev non aveva incontrato particolari resistenze circa l’unione con la Chiesa di Roma tanto che ancora oggi in Ucraina molto numerosi e con sede principale a Kiev, lasciata la sede storica di Leopoli soltanto nel 2005, sono gli eredi cattolici degli ortodossi che, pur mantenendo la spiritualità e la liturgia orientali, accettarono allora di unirsi ai latini.

Dalla fine del XVI secolo questi cristiani si dicono uniati, e cioè uniti, per il passaggio definitivo della metropolia di Kiev dalla giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli a quella del Sommo Pontefice Romano cui oggi sono legati secondo i canoni di un codice sui iuris e la cui Chiesa, denominata greco-cattolica ucraina, comprende numerose circoscrizioni in patria e nella diaspora

Quando però Isidoro, arrivato a Mosca, nella cattedrale dell’Ascensione, all’interno del Cremlino, il 19 marzo del 1441 aveva letto il decreto di unione fiorentino e consegnato al gran principe Vassili II la lettera in cui papa Eugenio gli chiedeva di sostenere il suo legato nella diffusione del cattolicesimo, aveva provocato la reazione irata dello stesso sovrano e del clero russo che lo avevano ritenuto colpevole di apostasia.

Conseguentemente Isidoro, dopo pochi giorni, era stato arrestato e imprigionato nel monastero di Čudov, sempre all’interno delle mura del Cremlino, ma solo a qualche mese di distanza era riuscito a fuggire e a riparare, prima in Lituania, e quindi a Roma da dove non gli era stato certamente possibile opporsi alla sua deposizione dalla carica di Metropolita di Kiev e di tutte le Russie decretata dal sinodo della Chiesa russa che, nel 1442, aveva rigettato anche l’unione fiorentina e che, da allora, lo ricorda come Isidoro l’apostata.

Nel frattempo Eugenio IV era rimasto a Firenze fino al gennaio del 1443 per rientrare a Roma nel settembre successivo, dopo quasi due lustri di assenza, e nel medesimo anno aveva inviato il cardinale Cesarini come legato pontificio in Ungheria per convincerne il re, Ladislao III Jagellone di Polonia nonché, dal 1440, anche d’Ungheria con il nome di Vladislao I, a capeggiare la crociata proclamata dallo stesso papa contro gli Ottomani, quale impegno sottinteso per la felice conclusione del Concilio fiorentino, a sostegno di Giovanni VIII Paleologo il cui impero era andato indebolendosi e riducendosi per le molteplici invasioni turcomanne succedutesi nei secoli.

La crociata era fallita, però, con la rovinosa sconfitta inflitta all’esercito cristiano nella città di Varna, sul Mar Nero in Bulgaria, dalle truppe del Sultano Murad II il 10 novembre del 1444, quando erano morti anche il re Jagellone e il cardinale Cesarini.

Per quanto concerne la Rutenia poi, alla fine del 1448, senza il consenso del Patriarcato di Costantinopoli, manifestando  apertamente la volontà di optare per l’autocefalia della Chiesa ortodossa russa, lo stesso gran principe Vassili e le alte gerarchie ecclesiastiche ortodosse avevano eletto direttamente nuovo Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, il vescovo Giona il quale, come accennato, secondo le loro intenzioni avrebbe già dovuto essere nominato Patriarca di Kiev e di tutte le Russie già dieci anni prima, nel 1438, al posto di Isidoro.

Quest’ultimo, nel 1452, quale legato pontificio, era stato quindi inviato a Costantinopoli da papa Niccolò V, eletto al soglio di Pietro dopo Eugenio IV nel marzo del 1447, per proclamare l’unione delle Chiese in Santa Sofia.

La cerimonia solenne, così come era stato fatto in Santa Maria del Fiore con Giovanni VIII morto nel 1448, aveva avuto luogo il 12 dicembre di quel medesimo 1452 alla presenza del fratello che gli era succeduto, l’imperatore Costantino XI, e del patriarca ecumenico Atanasio II il quale era stato eletto a sua volta, dopo che Gregorio III, unionista e presente anche lui al Concilio di Firenze insieme ad Atanasio, era stato costretto a rinunciare all’incarico.

A poco di tre mesi dalla tanto discussa proclamazione dell’unione in Santa Sofia, però, il 2 aprile del 1453, Maometto II aveva sferrato il suo attacco alla città che, come sappiamo, era poi caduta il successivo 29 maggio.

Anche il cardinale Isidoro aveva partecipato attivamente alla sua difesa con i duecento balestrieri che aveva assoldato come guardia personale mentre il patriarca Atanasio II era fuggito e si era rifugiato sul Monte Athos per trasferirsi quindi in Ucraina dove sarebbe poi morto.

Ferito e fatto prigioniero, Isidoro, vestito dei suoi abiti un morto, non riconosciuto era riuscito a imbarcarsi per l’Anatolia per poi passare a Candia, nell’isola di Creta, e quindi a rientrare a Roma nel 1454 riaccolto da Niccolò V.

Niccolò era poi morto nel 1455 ed era stato eletto a succedergli Callisto III, spagnolo di casa Borgia il quale, come la gran parte dei protagonisti di questa intricata vicenda che tante conseguenze ha comportato e comporta ancora, aveva partecipato al Concilio di Firenze in quanto vescovo di Valencia.

Defunto anche papa Callisto nel 1458, dopo solo poco più di tre anni di pontificato, era stato eletto papa Pio II Piccolomini il quale, nello stesso 1458, aveva nominato Isidoro Patriarca latino di Costantinopoli, carica mantenuta fino alla morte a Roma, nel 1463, allorché fu sepolto nella basilica di San Pietro.

Frattanto, rinunciato all’incarico di Patriarca di Costantinopoli, anche Gregorio III, accolto da papa Niccolò V, nel 1451 si era stabilito a Roma per poi morirvi nel 1459 dopo avere provveduto, l’anno precedente, nel 1458 e con il consenso di papa Pio II, alla  ordinazione di Gregorio il Bulgaro, accolito di Isidoro di Kiev, a Patriarca di Kiev, Halyč, capitale della Galizia antecedentemente a Leopoli, e Rutenia, contrapposto, quale cattolico, al vescovo ortodosso Giona il quale, come abbiamo avuto già modo di ricordare, dieci anni prima, nel 1458, era stato eletto Patriarca di Mosca e di tutte le Russie.

Negli ultimi anni della sua vita il Ruteno era stato assistito dal cardinale Bessarione che, su decisione di Pio II, nel 1463 gli era succeduto nella carica di Patriarca latino e tra le cui carte si annovera anche la lettera indirizzatagli da Isidoro, scritta a Creta e datata 6 luglio del 1453,  con il resoconto dettagliato del suo impegno nella difesa della capitale romana d’Oriente e la narrazione drammatica della profanazione della basilica patriarcale di Santa Sofia che, la sera stessa della caduta della città, era stata trasformata in moschea come è tornata a esserlo nel 2020, dopo essere diventata un museo dal 1935.

Riprendendo a questo punto la narrazione delle vicende di Zoe/Sofia, è opportuno ricordare che nel 1469 papa Paolo II, puntando come i suoi predecessori all’affermazione del cattolicesimo in Russia, la propose in sposa a Ivan III figlio di Vassili II e il Bessarione partì per Mosca e ottenne il consenso alle nozze.

Morto Paolo II nel 1471, anche grazie al sostegno del potente cardinale Latino Orsini fu eletto papa Francesco della Rovere il quale assunse il nome di Sisto IV, e il rito nuziale, per procura e secondo il rito romano, fu celebrato in San Pietro il primo di giugno del 1472.

Alla cerimonia assistette anche Clarice Orsini la quale, a tre anni dal suo matrimonio con Lorenzo il Magnifico, tornata per la prima volta a Roma in visita ai parenti accompagnata da Luigi Pulci, pochi giorni prima aveva fatto visita alla principessa.

Lo stesso Pulci ne fu testimone e ne riferì da Foligno a Firenze all’amico Lorenzo il 20 maggio di quell’anno e non si può non riportarne la descrizione dissacrante che ne fece da par suo ricorrendo anche a un gergo ingiurioso e a metafore grossolane, tant’era orripilante secondo lui la promessa sposa del Gran Principe moscovita: «Io non hebbi tempo a scriverti da Roma ogni cosa. Hora, acciò che la regola non falli di dire qualche male, io t’ò a dire, che la nostra Madonna [Clarice] a questi dì passati finse andare al perdono a sancto Agnolo. Dipoi ci conduxe ad vicitare la figliuola del Dispoto della Maremma, vuolsi dire della Morea (…). Descriverrò adunque brevemente questa cupola di Norcia, anzi questa montagnìa di sugna, che noi vicitamo; che non credevo ne fussi tanta nella Magna, non che in Sardigna. Noi entràmo in una camera, dove era parata in sedia questo berlingaccio, et havea con che sedere! almeno ti prometto. Hora io mi comincerò nel mezzo, dove sta la virtù. Fa’ conto che m(adonn)a Mea costì, o m(adonn)a Cosa [due persone che, al servizio dei Medici nel palazzo fiorentino di via Larga, erano evidentemente di corporatura robusta e di forme prosperose e delle quali ritroveremo madonna Mea ricordata più volte nell’inventario dei beni del Magnifico, redatto alla sua morte] sono due formiche tisiche nella riciditura (…). Due naccheroni [grossi timballi o timpani] turcheschi nel petto, un mentozzo, un visozzo compariscente, un paio di gote di scrofa, il collo tralle nacchere [le grosse mammelle]. Due occhi, che sono per quattro, con tanta ciccia intorno et grasso e lardo et sugna, che’1 Po non ha sì grandi argini. Et non pensassi che le gambe fussino però di Giulio secco [rinseccolite per la siccità tipica del mese di luglio]; con un paio di mantaconi [coscioni esagerati come grandi sacche da mantici] attaccati a quelle, di staiora tre in circa a seme [atte a contenere tre staia di granaglie e quindi tra i quarantacinque e i sessanta chili all’incirca di semi, variando la capacità dello staio da quindici a venti litri, a seconda del territorio, nonché per l’essere differente il peso specifico di quanto contenuto], che [considerati quasi un bene immobile di cui si dovevano specificati i confini], da primo et secondo culo et orrevole [probabilmente, quale eufemismo, la vagina verosimilmente spropositata per dimensioni]; 3° e 4° gambe, overo carratelli et più altri veri confìni. Chiasso in mezzo [fessura interglutea serrata], sugna per tutto. Io non so s’io mi vidi mai carnesciale, o cosa tanto unta et grassa et morvida et soffice et da ridere, quanto questa befanìa strana. Tutto dì si cicalò per interpetre, e uno suo fratello, con gambe non meno sufficienti che Jacopo [tremolanti, di persona malferma, intimorita, dall’espressione francese di Jacques Bonhomme], faceva il turcimanno. Et la tua madonna etc. abbagliata in questo dificio, et parendoli ancora bella cosa quello favellare col turcimanno, dice ch’ella è così bella. Et Benedetto [Dei] non allega altro tutto dì, se non ch’ella ha così bello bocchino sappiente, et sputa così avenevole. È vero la piccola bocca, ma la natura suole tutte lo cose fare con giustizia. Molte cose vi si ragionò in greco insino a sera. Ma di colletione o di bere, né in greco, né in latino, né in vulgare non si fe’ mentione. Haveva pure assai che dire alla nostra madonna, che una vesta ch’ella avea in dosso era cosi misera e stretta, perchè la buldriana n’aveva una pocciosa et gonfiata, che v’era entrato 6 pezze di zetani chermisi: pensa tu, a fasciare la cupola di sancta Maria Ritonda [del Pantheon]! Io ho sognato ogni notte poi montagne di burro et di grasso, et di sevo et di panelli, et d’ogni cosa schifa (…). In tutte l’altre cose la nostra Magnifica è savia et discreta, come quella che ha havuto costì buona maestra. S’è portata come una sybilla et grande honore gli è stato fatto; e io torno hoggi là per fare mio debito e racompagnarla insino costì, come alla partita mi fu imposto, ché venni insino qui per fare mie facciende lasciate sospese. Che Idio salvi ci conduca». La lettera è la ventunesima di quelle raccolte da Gaetano Milanesi nel fondo Mediceo Avanti il Principato del nostro Archivio di Stato, e pubblicate a Lucca a cura di Salvatore Bongi, presso la Tipografia Giusti, nel 1886 292 a – Luigi Pulci, Lettere di Luigi Pulci a Lorenzo il Magnifico e ad altri, Lucca, Tipografia Giusti, 1886, pp. 63-66

 

L’ultimo capitolo di questa complicata ma straordinaria storia, la troverete nella prossima pubblicazione.

Un saluto.

Zavoratti