Buongiorno e buona domenica,

come (quasi) ogni mattina, la lettura della rassegna stampa quotidiana riserva sorprese più o meno rilevanti.  Questa mattina, alle 6.59 arriva il quotidiano DOMANI la cui newsletter pubblica un articolo di Raffaele Romanelli (una sintesi del suo CV lo si trova in calce) su un tema che, incidentalmente, era stato oggetto di acceso confronto nel pranzo di ieri tra amici (rigorosamente seguendo le regole); inizio la lettura in modo un po’ svogliato dopo aver già letto una buona dose di notizie che avevano quasi completamente saturato la mia attenzione ma il titolo era accattivante: Le enormi conseguenze politiche del mercato degli algoritmi.

Il primo capitolo dell’articolo riporta esattamente i commenti che abbiamo tratteggiati durante il pranzo di ieri. Avrei voglia di abbandonare la lettura … ma Romanelli non può essere scontato e decido di continuare. La lettura continua tutta d’un fiato e alla fine non capisci bene se rimanere affascinato da Romanelli o impietrito dal contenuto: allora decido che tutte e due le emozioni hanno pari dignità. Ma decido anche che è importante divulgare l’intero articolo che trovate di seguito; se alla fine qualcuno avrà ancora voglia di continuare, troverà qualche spunto per una riflessione che potrebbe aiutarci a crescere ed essere più consapevoli.

Le enormi conseguenze politiche del mercato degli algoritmi

Chi indaga in rete sulle mensole per il bagno o acquista un libro di Popper, sa che da quel momento sarà inondato di offerte di mobilio o di opere filosofiche. Ci sentiamo spiati e controllati. Lo siamo, ma c’è ben altro. Ben al di là dei nostri acquisti di libri o consultazioni di mensole, gli algoritmi che muovono Facebook o Google, Snapchat, Instagram, YouTube o TikTok, registrano i post che abbiamo letto, i messaggi che abbiamo mandato, i siti che abbiamo consultato, ma anche se li abbiamo appena scorsi, per quanto tempo sono passati sotto i nostri occhi. Non solo ci propongono immagini, oggetti o opinioni che sanno di nostro gradimento, non solo conoscono con sempre maggior precisione i nostri gusti, stati d’animo, emozioni, abitudini e inclinazioni, non solo delimitano i nostri spazi di scelta e dunque di azione, ma a loro volta li modellano, li orientano, così plasmando il circuito di riferimento, o la “camera dell’eco”, la eco chamber in cui viviamo. Il documentario The social dilemma, visibile su Netflix, descrive le logiche e le tecniche che muovono questa rivoluzione, la sua estensione, i suoi effetti epocali, la dipendenza e la disperazione che produce nei singoli, le fratture nei comportamenti collettivi. E nella democrazia.
 

Effetti politici

Pensiamo intanto ad alcuni suoi effetti in senso lato politici. Della radicalizzazione politica prodotta in particolare negli Stati Uniti trattano ormai diversi libri, come il recente Why we’re polarized di Ezra Klein. Ma facciamo un passo indietro. Per sua natura la rappresentanza politica si pretende basata sul confronto, sulla mediazione, sull’incontro di opinioni e interessi. Il sistema parlamentare è storicamente vantato come “government by discussion”, simboleggiato da un “parlamento” nel quale per l’appunto si parla, si discute e ci si confronta, generalmente sulla base di dati, indagini, inchieste e rapporti. Tra fine Ottocento e fine Novecento, snodo essenziale di questi processi sono stati i partiti politici, camere di filtraggio e di elaborazione delle opinioni.

Da quando è nato, il meccanismo ha sempre conosciuto varie imperfezioni. Slogan demagogici e parole gridate, leader carismatici capaci di pronunciare parole d’ordine di grande effetto hanno “semplificato” o messo del tutto a tacere il confronto delle idee. Spesso, sull’orlo del baratro, la democrazia ha trovato i suoi antidoti. Non è perciò escluso che in futuro si trovino modi per riequilibrare ciò che sta avvenendo oggi. Accade infatti che i messaggi brevi e fulminei dei social sono tanto più efficaci quanto più disconnessi da qualsiasi riflessione, e sono tanto più efficaci quanto più sono radicali. Gli algoritmi fanno prevalere le posizioni più semplici, e dunque drastiche, che accentuano il divario tra “noi” e “loro”. Non costruiscono opinioni ma catturano e forgiano identità esasperando una inclinazione ben nota agli psicologi, per la quale prestiamo più facilmente ascolto a ciò che ci è familiare, “riconosciamo” e aderiamo alle idee che già abbiamo, cioè appunto viviamo in una “camera dell’eco”.
 

La realtà non esiste

In uno schema siffatto le argomentazioni più complesse e meno recise perdono terreno, e il discorso politico è a disagio con concreti programmi che introducono momenti di riflessione, di dubbio o di contraddittorio, che rendono assai meno efficace il messaggio. Ma soprattutto il discorso è refrattario ai dati di fatto. Pensiamo a quando Donald Trump ha continuato a denunciare le truffe elettorali che decine di verifiche e sentenze dei tribunali hanno smentito. In quei casi avviene anzi che la smentita fattuale e documentaria sembra confermare l’assunto, perché è intesa come ulteriore prova del complotto. Così nascono gli scontri armati e gli assalti al Campidoglio degli Stati Uniti. È noto in questo senso il caso estremo del negazionismo della Shoah, che la concreta esistenza dei campi rafforza, se vissuta come una falsificazione sionista. Un rilevamento ha mostrato che i “terrapiattisti” suggeriscono che la diffusa convinzione contraria sia stata artatamente costruita da una congiura ordita da chi vuole diffondere l’errata credenza che la terra sia rotonda. Infatti l’algoritmo, così come individua il mercato di un dentifricio, allo stesso modo individua i soggetti inclini a credere ai complotti e inventa una eco chamber, come ad esempio quella che negli Stati Uniti raduna quanti possono credere che il partito democratico sia dominato da una congiura di pedofili.
 

Notizie (false) e smentite

Ma è una logica ormai pervasiva, anch’essa oggetto di riflessioni accademiche, come mostra ad esempio On Rumors. How falsehoods spread, why we believe them, and what can be done, di un autorevole giurista americano, Cass S. Sustein, autore anche del più recente Liars. Falsehoods and free speech in an age of deception. Molti studi documentano la assoluta prevalenza che una falsa notizia ha sulla sua smentita, o sulla notizia vera, cioè verificata. E le false notizie non sono più quelle che Marc Bloch registrava nelle trincee della Prima guerra mondiale, giocate in un sottile dialogo tra arcaiche culture orali del popolo e culture scritte, ma sono il portato della tecnologia più moderna.

È una modernità tecnologica che attinge anche all’attuale dispersione delle grandi sistemazioni del mondo. Le invenzioni più rozze della passata demagogia – i capitalisti americani schiavizzano i bambini, i comunisti russi li mangiano – poggiavano, sia pure alla lontana, sulla contrapposizione di sistemi (est/ovest, comunismo/capitalismo, fascismo/antifascismo), che poi i partiti politici articolavano e dotavano di senso. Oggi, dissoltisi quei quadri globali-concettuali, svanita l’azione organizzatrice del pensiero politico svolta dai vecchi partiti, agisce una “polarizzazione pura”. Si pensi al caso dell’inchiesta giudiziaria avviata in un piccolo comune emiliano, Bibbiano, per una brutta vicenda di affidi di bambini. Appartenendo il sindaco, che in un primo tempo sembrava coinvolto, a un partito, un partito concorrente ne ha fatto occasione di scontro frontale a livello nazionale. L’indecente volgarità dell’assunto (il “partito di Bibbiano”) ha fatto trascurare la matrice “culturale” del caso, nel quale un insulto tagliente galleggia privo di ormeggi, e non ha impedito di lì a poco una alleanza (“organica”?) tra i due partiti coinvolti, così come si può prestare deferente omaggio a un capo dello stato di cui si è chiesta la messa in stato di accusa, o si può intessere paludati dialoghi diplomatici in clima europeista da chi ha solidarizzato con i ribelli indossanti gilet gialli.
 

Non ci sono despoti

Non si punti il dito sulle contraddizioni in sé stesse, che sono di questo mondo e muovono la politica. Rilevante è invece lo scollamento tra messaggio e significato, tra demagogia e dati di fatto. Commuovono a questo proposito le parole di chi, come Matteo Salvini, in presenza di 500 morti al giorno per Covid-19 dichiara «irrispettoso verso gli italiani» il lockdown nei giorni della santa Pasqua.

D’altra parte, in tanto galleggiamento la polemica politica, proprio in quanto radicalizzata sente pur sempre il bisogno di un qualche ancoraggio “sistemico”. E quando questo non viene offerto da fratture profonde – come capitalismo/comunismo, ovest/est – deve essere inventato, immaginando complotti planetari e congiure informatico-farmaceutiche di magici “poteri forti”. Inutile dire infatti che la pandemia, con tutte le sue paure e incertezze, ha fornito materiale prezioso per questo tipo di operazione. In Italia, il paese dell’opera buffa, ha così fatto capolino il caravanserraglio della strana coppia Agamben & Montesano, con tutte le sue giullaresche appendici. Ma i meccanismi enunciati in The social dilemma meritano una riflessione ben più attenta proprio perché non svelano specifici disegni distopici che dominano il mondo, con oscuri responsabili e nuovi despoti soggetti dominatori. Nati per diffondere dei prodotti e produrre utili, gli algoritmi, i vari Facebook, Twitter o Google, offrendo gratuitamente servizi e prodotti hanno fatto degli stessi utenti un prodotto che produce utili. Il meccanismo ha enormi conseguenze politiche, fino alle soglie della guerra civile, ma non per questo ha specifiche finalità e responsabili politici. Le sue logiche sono commerciali e il suo obiettivo è il profitto, e per questo può essere contrastato senza dover stanare e sconfiggere segreti despoti.

Se è vero (e purtroppo lo è: i Social lo dimostrano) che oramai siamo attratti esclusivamente da messaggi lunghi quanto la punta di uno spillo, allora temo che pochi saranno arrivati al termine di questo articolo. Se qualcuno è arrivato fin qui, mi piacerebbe chiedergli come è possibile combattere questo meccanismo creato dall’uomo ma da questi non voluto. Se ormai non possiamo più evitare la polarizzazione che passa solamente attraverso “slogan”, e che ha abbandonato ogni occasione di riflessione, possiamo veramente pensare che un conflitto civile sia così lontano?  Io non credo.  Ma qualcosa occorre fare?  Pensiamoci tutti …

Buona domenica.

Zavoratti

Raffaele ROMANELLI (da WIKIPEDIA):

Nel 1966 si laurea in scienze politiche presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Dal 1967 al 1993 ha ricoperto ruoli di assistente o professore in varie università italiane, tra cui Trento, Macerata e Pisa. Tra il 1993 e il 2002 è stato docente presso l’Istituto universitario europeo a Firenze, e dal 1994 al 2002 è stato professore di storia contemporanea all’Università degli studi di Messina. Dal 2002 al 2012 è stato professore ordinario presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

Negli anni 1999-2003 è stato presidente della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO), di cui è socio fondatore. Per più di vent’anni è stato nella redazione della rivista “Quaderni Storici”.

Dal 2010 è direttore scientifico del Dizionario Biografico degli Italiani curato dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana; in questa veste ha promosso un programma di ampliamento della sezione online del Dizionario Biografico.