Buongiorno a tutti,

questa mattina la lettura dei quotidiani, come ormai accade da tempo, è incentrata sulle manovre per far eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. La lettura di questi articoli sarebbe di grande interesse per tutti. Si scoprirebbe, infatti, che il linguaggio utilizzato da politici e commentatori per commentare, osservare, disquisire, approfondire, sviscerare, smascherare, riflettere su ciò che viene ritenuta l’elezione più importante in una democrazia, è affatto particolare; viene usato un linguaggio assai modesto, improprio e persino sgangherato.

Ci ha riflettuto con estrema attenzione Roberta De Monticelli (filosofa) ed ha scritto un articolo che mi ha molto colpito per diverse ragioni di cui provo a dar conto.

Con riferimento ai politici che dovranno eleggere il nuovo inquilino del Colle più alto di Roma, De Monticelli si sorprende per l’utilizzo del termine “appetiti” riferito agli interessi dei vari kingmaker veri o millantati. E così riflette:
“sento da giorni e giorni commentatori politici fiancheggiare col loro disincanto, con strizzatine d’occhi e gesti d’intesa furba e cinica, l’inverecondia di uno “scatenarsi di appetiti” per la suprema carica dello stato. Così, come fosse ovvio e normale parlare di ‘appetiti’ in questo contesto: come se la parola stessa non dovese suscitare disgusto. Ma tu avvilisci le parole che ognuno legge o ascolta, appiattisci ogni giorno l’ideale sul reale e la norma sul fatto: e toglierai a noi cittadini ogni luce, ogni arma per resistere alla piena fangosa e libidinosa della mediocrità – di ambizioni, di intelligenza, di motivazioni personali e politiche – che sta travolgendo le istituzioni della democrazia.”

Come non essere d’accordo? L’elezione della figura più importante della nazione che rappresenta un ideale; quell’ideale uscito dalla Resistenza e da mesi e mesi di lavoro e conflitti tra tutte le forze politiche e civili di allora, lasciata nelle mani di alcuni tra gli uomini e donne più discutibili della nostra società che utilizzano un linguaggio, espressione ovviamente del loro pensiero e (sub) cultura, che si utilizzerebbe in una rissa da bar o mercato rionale.

Siamo straordinari!

Ancora De Monticelli, si chiede “cosa c’entrano gli appetiti con ciò che è in palio?” E la sua risposta è: “E’ in palio il ruolo di garante di un’immensa promessa che come cittadini abbiamo fatto a noi stessi, di fondare la nostra convivenza materiale e civile non sulla forza, delle armi o degli interessi particolari e coalizzati, ma sul giusto ordine ideale”.

Temo che il periodo delle speranze e delle promesse sia da archiviare definitivamente in un capitolo della nostra storia che è stato, ma non tornerà mai più.

De Monticelli conclude la sua riflessione, nella speranza di promuovere il senso dell’altezza di un ideale, con un quesito che vale la pena di riportare:

“Ma se il nostro dibattito pubblico non avesse, come Dante, ‘perduto la speranza dell’altezza’ (ndr: vedi nota in calce) nella mortificazione delle parole, non saprebbe indicare forse alcune personalità luminose, che sono anche più esperte di questa immensa promessa, la Costituzione, rispetto a questi supposti leader pieni di piccoli ‘appetiti’?”

Non ci resta che attendere ancora pochi giorni per avere la risposta; ma ho la quasi certezza che la risposta non sia da rintracciare nella identificazione di una persona che rappresenti l’ideale di “promessa” frutto della nostra Costituzione, ma vada invece rintracciata nella mediazione di “appetiti” più o meno bassi, con la speranza che in questi “appetiti” trovi spazio, anche, per qualche ideale per giustificare tanto baccano!

Un saluto.

Zavoratti

 

(ndr: perduto la speranza dell’altezza. Nota di Aldo Onorati. Nella notte fra il giovedì santo, 7 aprile 1300, e l’alba del venerdì santo, 8 aprile, Dante si perde in una selva oscura. Egli ha 35 anni, è a metà della vita, se si considera la durata di essa (per la Bibbia: 70 anni i forti). È a questo punto cruciale dell’esistenza che si smarrisce in una valle tenebrosa, quella del peccato, pieno di sonno (l’indifferenza morale), a causa del quale Dante non riesce a spiegare come entrò in quella selva, dalla quale solo la Grazia Divina può salvarlo (purché l’uomo si apra all’opera della Provvidenza). Ed ecco il colle “dilettoso” apparire ai suoi occhi proprio nel momento della disperazione, ma tre fiere si frappongono tra lui e la salvezza: una lonza, un leone e una lupa, rispettivamente allegorie della sensualità, della superbia e dell’avidità. La terza belva, causa di tutti i mali del mondo, quindi peggiore e più pericolosa della stessa superbia e dei sensi, gli fa perdere la speranza dell’altezza.)